Datore di lavoro condannato per un infortunio accaduto a un lavoratore che mentre smontava un’opera provvisoria all’interno del cantiere edile, cadeva al suolo da un’altezza di 1,87 m, privo di elmetto protettivo.
Il datore di lavoro non l’aveva ritenuto necessario in quanto non considerava si trattassero di lavori in quota, poiché il piano di calpestio era posto all’altezza di metri 1,80 e dunque i lavori non erano eseguiti ad un’altezza superiore a metri 2.
Il ricorso è stato rigettato con questa motivazione:
“Si è infatti condivisibilmente ritenuto, in giurisprudenza, che l’altezza superiore a m 2 dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall’art. 122 d. lg. n. 81 del 2008 (che ha sostituito l’art. 16 d. P. R. n. 164 del 1956, ponendosi però in continuità con esso), va calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito, rispetto al terreno sottostante, e non al piano di calpestio del lavoratore (Cass., Sez. 4, n. 43987 del 28-2-2013, Rv. 257693; Cass., n. 741 del 1982; n. 7604 del 1982; n. 5461 del 1983). Sotto il profilo giuridico, non ha dunque rilievo che il piano di calpestio fosse posto ad un’altezza inferiore a metri 2, se il lavoro si svolgeva ad un’altezza superiore. E, in questa prospettiva, occorre osservare come la Corte d’appello abbia sottolineato che l’operaio lavorava a un’altezza tale per cui c’era il rischio, sia teorico che effettivo, che egli potesse cadere dall’alto, trattandosi di un lavoro da effettuarsi, ad operaio in posizione eretta, a oltre 2 m. Ragion per cui il rischio di caduta era prevedibile e doverosamente evitabile, sia in via preventiva, nel POS, sia nel momento esecutivo: trattasi di motivazione del tutto immune da censure.”
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